Cibo, fame, Expo

Cibo fame Expo
Tonino D’Orazio. 6 gennaio 2016.

E’ finita l’Expo. Meno male. Mondo irreale di cartapesta. Con numero falso dei visitatori. Con debiti da pagare, noi. Con scontro feroce di appalti per le aree del dopo, un risiko normale di malaffare per continuare. Ci sarà di nuovo da stupirsi e da divertirsi.
Poi c’è un mondo reale, quello vero del globo con un surplus o un assenza feroce di cibo.
Intanto anche noi, cosa mangiamo? I nostri iper/super mercati sono pieni di strani prodotti: pomodori e fragole senza stagioni e senza sapore, prodotti inverno e estate da serre surriscaldate, a colpi di fungicidi e concimi chimici; frutti vari che viaggiano acerbi attraverso il mondo per arrivare quasi maturi; piatti preparati e costruiti con misto di carni varie e surrogati, grassi, zucchero, lattosio, sale; pizze guarnite con “formaggi analoghi” che non contengono una goccia di latte. Bombe calorifere, cibi polisaturati che certificano milioni di obesi, quasi tutti tra il 40° e il 65° parallelo nord del globo.
I consumatori non si ribellano, sono stati convinti dalle multinazionali del cibo che non c’è alternativa e che comunque non bastano i cibi freschi per nutrire tutta l’umanità. In questo modo costa così poco nutrire i poveri, i lavoratori e le loro famiglie. Tanto, con quello che guadagnano! I consumatori diventano anche loro un prodotto da plasmare e addestrare, come i polli di allevamento industriale.
Quindi si intensificano gli allevamenti e l’agricoltura, l’uso di pesticidi (sempre meno efficaci e sempre più potenti), di farine animali, di olio di palma (accertato cancerogeno), degli OGM (Organismi Geneticamente Modificati).
Eppure anche il nutrimento a basso costo immediato comporta spese sociali decuplicate in sanità e in distruzione ambientale. Si pensi all’inquinamento irreversibile delle nappe freatiche, alla distruzione delle biodiversità (nel 1910 si mangiavano 95 tipi di vegetali, oggi poco più di 20), compresa quella animale ovviamente. Si pensi al depauperamento dei terreni coltivati intensivamente, alla deforestazione (ogni anno, in Brasile scompare un area boschiva pari alla superficie della Svizzera). In sanità, con malattie sempre più diffuse come diabete, colesterolo, ipertensione e quella che si preannuncia secolare, le allergie.
I grandi complessi agroalimentari, per proporre prodotti a basso prezzo schiacciano i salari precarizzando milioni di lavoratori, oltre a schiavizzare, legalmente o meno, immigrati e stagionali, in tutto il mondo; a sottopagare le commesse e i rivenditori-produttori primari; a sfruttare per un numero di ore imprecisato ma inumano i trasportatori. In tutto il mondo. L’agroalimentare è un avanposto della “deregulation” del diritto e della dignità del lavoro. I super e gli iper mercati, regno del lavoro precario e dei bassi salari, per effetto di scala, propongono il cibo a prezzi che sfidano ogni concorrenza, captano in Italia 2/3 delle spese alimentari delle famiglie e provocano la scomparsa progressiva dei piccoli commerci di prossimità.
L’industria alimentare non tiene più conto dei ritmi della natura di prossimità. Troviamo prodotti agricoli in ogni stagione, standard, stranieri, uniformi e “dopati”; gli animali sono diventati “materie prime” e i semi OGM invadono i nostri campi e impediranno, più o meno alla lunga, una possibile coltivazione biologica, cioè naturale, normale.
OGM, dove si gioca con la natura viva per aumentare i profitti, se ne invade il patrimonio genetico che poi, tra l’altro, diventa impossibile da “controllare”. Si rischia una irreversibile catastrofe ecologica mondiale; in fondo si limita anche all’agricoltura mondiale e al cibo un concetto di libertà. Sembra un nucleare biologico che prima o poi produrrà la sua Tchernobyl. Una specie di distribuzione gratuita di semi di “cooperazione”, intanto nei paesi poveri e “affamati”, un po’ come spargere, come con le guerre attuali, uranio impoverito sul pianeta. Basta che renda. Distribuzione pagata dal FMI e dal Fondo per lo Sviluppo della Banca Mondiale per “aiutarli” a vincere la fame. Come se gli americani regalassero qualcosa senza aspettarne un sostanzioso ritorno.
In quanto ai nostri campi vengono già utilizzati al 35% per produrre mangimi e foraggi per gli animali, senza contare gli alpeggi, sempre più estesi a causa di una storica diminuzione di utilizzo agricolo nella fascia più bassa, altrimenti si raggiungerebbe il 76%.
Per non parlare di una percentuale importante di coltivazione di soia, mais e canna da zucchero che i paesi dell’emisfero nord hanno spostato al sud per produrre biocarburanti.
Bisogna aggiungere al disastro alimentare autoctono che, finita (quasi) la crisi americana dei sub prime del 2007, che ha coinvolto criminalmente il mondo intero, la speculazione finanziaria si è riversata sull’acqua e sugli alimenti facendo raddoppiare in pochi anni il prezzo del cibo, da noi, ma soprattutto nei paesi già poveri, mietendo ulteriori morti per fame. Con varie sommosse in Africa e Estremo Oriente (ve ne furono 37) tra il 2007 e il 2008. Sono state represse e non è successo più nulla. La morsa “coloniale” è ancora e sempre più forte.
Come per l’acqua anche per il cibo si preannuncia una vera e propria “guerra” ad accaparrarseli. L’Arabia Saudita ha acquistato e sta sfruttando circa 500.000 ettari di terra coltivabile in Etiopia per la coltivazione del riso, alimentazione base. Ma non per gli etiopi, ultimi tra i paesi alla fame, ma per il proprio popolo. Ma anche altre multinazionali si impiantano nei paesi più poveri per “appropriazioni” che chiamano “investimenti”.
L’altro cibo pregiato è il pesce. Le flotte da pesca dei paesi industrializzati, in modo sistematico, stanno razziando tutti i mari del globo, impoverendoli tutti, soprattutto quelli africani, ma anche gli oceani indiani e nord atlantico (dove è quasi scomparsa l’aringa e presto anche i salmoni). Le navi pescano 2,5 volte il necessario, accelerano la scomparsa di varie specie (interrompendo tra l’altro la catena alimentare in mare con vari disastri genetici, si pensi per esempio all’iper sviluppo delle aragoste che hanno invaso e colonizzato tutto il mar Baltico), e inquinano in modo irreversibile, non solo loro però, gli oceani.
Ma lo spreco va oltre. Se la nave industriale da pesca (di stazza e di struttura) esce per le aringhe tutti gli altri pesci presi nella rete vengono scartati e muoiono sui ponti o nei macchinari di selezione e vengono ributtati in mare, morti. Su tre pesci pescati, in genere, due vengono ributtati in mare. Altro dettaglio (dati Fisheries Center Columbia University), “sono quelli che non hanno bisogno di pesce, gli abitanti dei paesi ricchi, che consumano l’80% della pesca mondiale”.
La regolamentazione delle quote europee di accesso alla pesca, distribuite ai “piccoli” sono state ricomperate dai grandi magnati. I semplici pescatori vicino a noi, a Km zero, come i contadini per l’agricoltura, pagano di nuovo pegno. Quando i pescherecci europei hanno problemi, delocalizzano, si iscrivono e battono bandiera di paesi accomodanti. Non si ferma il “progresso” del libero mercato.
Sullo spreco del cibo, regolamentato ora per legge in Francia, con qualche rimorso di coscienza, anche in Italia si comincia a ragionare, ma hanno iniziato a ragionare di solidarietà, come sempre, i piccoli commercianti, i panettieri che regalano il non venduto. I poveri per i poveri. Qualche ristorante ti dà la vaschetta per non sprecare e portare via il troppo, ma spesso è considerato “resti”, e sono per gli animali di casa, anche quelli nutriti a scatolette 5 stelle culinarie. Intendiamoci, se hai degli animali in casa non c’è dubbio che vadano curati, ma come animali, non a scapito dell’uomo. Nello spot pubblicitario televisivo successivo ci sono i bambini, spesso africani, che muoio di fame. Mentre stiamo a pranzo.
I dati che seguono sono della FAO e del Consiglio dell’Europa per il 2015. Nel mondo circa il 15% della popolazione è sottoalimentata (800 milioni), 2 miliardi di individui sono malnutriti, 6 milioni muoiono di fame ogni anno. 1,5 miliardi di tonnellate di cibo, nel mondo, sono buttati ogni anno, (di cui ¼ non consumato), cioè 1/3 della produzione mondiale destinata al nutrimento umano. In Europa si sprecano 90 milioni di tonnellate ogni anno. Prima è la Gran Bretagna (180kg/persona/anno) seconda è l’Italia (150kg/persona/anno).
Diventa poi rivoluzionario, intanto almeno culturalmente, puntare ad accedere a un cibo di qualità. C’è la tendenza, ma è numericamente ancora insignificante, all’utilizzo di prodotti biologici o a Km zero. Ammessa una vera fiducia verso quei prodotti. Comunque costano di più e i poveri dovranno accontentarsi di sorbirsi l’agro-business, con tutto ciò che comporta per un futuro di cibo puramente chimico o “assemblato” che apprendisti stregoni ci propineranno. Siamo già pronti con gli “integratori” alimentari vari che utilizziamo spesso, più che per la salute, a volte come pasticche concentrate e sostitutive del pranzo o di vitamine naturali.
Se pensiamo che gli hamburger dei McDonald, disincarnati, vuotati del sangue, privati del colore, asettizzati, standardizzati, quasi finti in mezzo a salse varie, sono per molti simbolo della modernità, bambini al seguito, invece che delle ambiguità del cibo. Vengono utilizzati polli allevati a milioni in spazi ristretti e con mangimi semi artificiali, ormonizzati, gonfiati di antibiotici. In più esiste una discriminante ingiusta, nel senso che ci sono animali “che contano”, quelli simpatici o di compagnia, e quelli che “non contano”, i banali; con una ulteriore distinzione anche umana tra i carnivori e i necrofagi. Mondo di cui facciamo parte.
Certamente il movimento internazionale lanciato dall’Italia, “Slow Food” (ristorazione lenta e di qualità contro il “Fast Food”, ristorazione rapida, correndo) alla fine degli anni ’80 (quando ancora contavamo qualcosa) ha avuto e ha tuttora una vera espansione in tutto il mondo. Tendenza apprezzata che va in parte sotto il nome di “dieta mediterranea”. Movimento con un approccio alla gastronomia fondata su valori culturali e ecologici, che propone un nuovo legame tra il piacere di mangiare, l’origine degli alimenti (denominazioni DOC) e il rispetto della vita e del lavoro rurale (aumento esponenziale degli agriturismo).
Magari c’era anche questo all’Expo, insieme ad altri paesi, ma a livello di clienti e di affari hanno vinto McDonald e multinazionali. Il buono era troppo caro. Per questo, a parte la diatriba sulla falsità del rendiconto, finanziario e partecipativo, reale delle entrate e delle spese, l’Expo non ha avuto niente da insegnare al mondo. Questa era la sinfonia dell’Expo milanese. E’ stata la vittoria dell’ipocrisia e la vittoria dell’agro-business. Una occasione di vetrina mondiale mancata.

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