Il Pilastro sociale europeo

Il Pilastro sociale europeo

Tonino D’Orazio 29 novembre 2017.

C’è qualcosa di nuovo sull’approccio alle problematiche sociali e del lavoro nella mente della troika di Bruxelles? Che cosa esce come novità al summit di Goteborg (17 novembre 2017),dove il Parlamento europeo, il Consiglio e la Commissione hanno proclamato un pilastro europeo dei diritti sociali per una Unione Sociale Europea?

Ci allontaniamo forse dal concetto storicamente stupido dell’austerità?

Forse è solo un nuovo modo di pensare l’unificazione monetaria imponendo un certo grado di convergenza nelle caratteristiche chiavi delle politiche sociali e occupazionali degli Stati membri.

All’indomani della crisi finanziaria, la spinta alla convergenza nelle politiche del mercato del lavoro ottenne uno slancio neoliberista nel discorso dell’UE, sotto il titolo di “riforme strutturali”, fu l’invito agli Stati membri a decentralizzare i loro sistemi di contrattazione collettiva, e spingere al massimo la flessibilità, che puntualmente si è tradotta in precarietà e povertà in tutta Europa. Lo shock ottenuto impedisce ormai oggi una ricostruzione solidale. Anche se si preconizza l’introduzione del concetto di uno sviluppo stabile della quota salariale nel reddito nazionale.

Un altro approccio nuovo è quello dell’unificazione del sistema di disoccupazione, visto in termini di assicurazione, affine al sistema bancario europeo, preconizzando una vera e propria centralizzazione “dell’assicurazione”, (il termine ha un doppio senso: solidale o finanziario-bancario), contro la disoccupazione, quando il “bisogno è veramente elevato”. Ci avviciniamo al caso? Diventa imperativo per la preoccupazione istituzionale dell’Eurozona, e per il suo sostegno come efficace capacità di stabilizzazione in ciascuno stato, una serie di enunciazioni la cui applicazione ha uno strano sapore di anti-austerità: sussidi di disoccupazione sufficientemente generosi, in particolare a breve termine; tassi di copertura sufficienti dei regimi di indennità di disoccupazione; nessuna segmentazione del mercato del lavoro che lasci una parte della forza lavoro scarsamente assicurata contro la disoccupazione; nessuna proliferazione di rapporti di lavoro non integrati nei sistemi di assicurazione sociale; attivazione efficace di individui disoccupati.

Questo insieme di principi occupa un posto di rilievo nel pilastro europeo dei diritti sociali, ma fa temere che possa rimanere una semplice enunciazione proveniente da chi ha distrutto il tessuto sociale di fondo e oggi teme un populismo di rivalsa che, prima o poi, possa avere il sopravvento sulla concezione distorta e competitiva di questa Europa. La stessa instabilità politica della Germania, capofila reazionaria, porta un indefinibile sospetto. Dubito che alla Confederazione Europea dei Sindacati (Ces), pur “rappresentando” 60 milioni di cittadini europei, sia stato permesso di partecipare. Non sono mai stati considerati e non hanno nemmeno un tavolo istituzionale vero, grazie al Trattato di Lisbona, su cui sedersi e per lo meno colloquiare.Finalmente si ritiene che la stabilità della quota salariale nel reddito nazionale, (cioè dei Contratti Collettivi Nazionali di Lavoro), possa diventare una questione di interesse comune. Sembra l’abbandono della linea dominante, disgregatrice e anti-sindacale sulla decentralizzazione della contrattazione collettiva, anche salariale. Si è capito che nel mercato del lavoro sostenendo sia flessibilità sia stabilità non c’è coerenza e che non tutti i tipi di flessibilità a tappeto sono vantaggiosi per uno stato. Per raggiungere la stabilità, e una certa equità, è necessaria un’azione collettiva, cioè la Contrattazione Collettiva, ma anche l’organizzazione di dispositivi assicurativi collettivi. La stabilità richiede strumenti che in genere proteggono gli individui vulnerabili: l’assicurazione contro la disoccupazione stabilizza l’economia, perché protegge il potere d’acquisto dei disoccupati e delle famiglie, organizza il mercato del lavoro (questo dipende da un punto di vista tra sfruttati e sfruttatori), e toglie pericolose angosce. Se poi abbiamo un certo Juncker che dichiara, magari pensando alla Grecia, che si tratta di “offrire nuovi e più efficaci diritti per i cittadini” ed “evitare la frammentazione sociale e il dumping sociale” si deve pensare che la parola chiave che lo preoccupa possa essere solo “dumping” e rimanere molto perplessi. Anzi forse è proprio un’esca affinché la Spd rifaccia un accordo con la Merkel e si possa continuare l’andazzo. Vista la durezza feroce di questi ultimi anni, diventa inutile pensare a una conversione sua e dei “nordici”.

Tanto è vero che la confusione, sull’applicazione e sulla natura del “pilastro”, regna senza risposta ed è preoccupante.Quale è adesso il ruolo dell’Unione? Alcuni dicono che il “monitoraggio dei risultati” è sufficiente per attuare il Pilastro; altri invocano la conversione di tutto il Pilastro in legislazione europea vincolante. Alcuni sottolineano che l’attuazione del Pilastro è responsabilità degli Stati membri, (altro che nuova solidarietà!); altri sottolineano la necessità di un sostegno europeo tangibile. Se Commissione, Consiglio e Parlamento non sviluppino una tabella di marcia credibile e Direttive precise, questa “apertura” si ritorcerà sicuramente e nuovamente contro di loro. Sembra che in questo caso la “responsabilità sociale” dei datoriali, (ma erano presenti?), passi tutto agli Stati o all’Unione. Servono una tabella di marcia e molti soldi, cioè una parte di quelli attribuiti e regalati prioritariamente alle banche. E secondo me, anche se in un Pilastro, il “lavoro e il sociale”, si rischia proprio di perderli ancora di più. Non vorrei esagerare, ma devo ammettere che assomiglia, i più anziani mi perdoneranno, al “Libro bianco” di Delors di trent’anni fa. Il mio pessimismo mi fa dire che “stiamo recuperando”.

 

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