Il lavoro consuma la vita

Il lavoro consuma la vita

Tonino D’Orazio, 26 luglio 2017.

La critica al lavoro e la sua mediaticità, se non ci fosse ancora Ken Loach nel cinema attuale, si è persa dopo “La classe operaia va in paradiso”, ma soprattutto con “La dolce vita” (anche 8e1/2) di Fellini che ha riorientato tutta la cinematografia borghese in Italia. Nulla da togliere alla sua arte, ma dopo il neorealismo della ricostruzione necessaria del dopoguerra, la borghesia si è ripreso il suo strumento culturale cardine e ha dettato bisogni e sogni alla classe lavoratrice. Meglio, con l’avvento della televisione è diventato tutto più facile.

La tematica però tra tempi di lavoro e tempi di vita si ripropone con sempre maggiore urgenza e drammaticità. Anzi sembra che oggi sia la carenza di lavoro a scandire i tempi ma anche la sua valenza, compresa quella ideologica del secolo scorso. Valenza ideale perfettamente distrutta dalla nuova cultura padronale.

Nella nostra Costituzione, in verità mai applicata, il lavoro è fondante per la repubblica italiana. Tralascio l’ironia facile su questo argomento di un diritto diventato da sempre utopico (quindi inesigibile). Da allora milioni di italiani sono andati via e ancora oggi ne vanno via sistematicamente centinaia di migliaia. Tutti alla ricerca del “lavoro”, che dovrebbe permettere “una vita dignitosa” e “soddisfare i bisogni primari” compresi quelli sacri della “famiglia”, oltre che essere utili alla società. Chiunque intellettualmente onesto può farsi attualmente una sintesi, senza tifo né illusione. Non funziona se mai abbia funzionato. Il lavoro è sempre stato e resta “una merce”.

Nell’epoca della robotica possiamo lavorare tutti e molto meno, invece resta “normale” lavorare con lo stesso orario di un secolo fa, (48 ore, che l’UE ha portato a 58 ore come possibilità legale) con il rischio sempre presente di restare senza un lavoro. Invece sembra che i pochi operai rimasti siano costretti a seguire i ritmi imposti dalla robotica, con turnazioni “inumane”. Una trappola di organizzazione sociale (mercato, Europa, concorrenza, globalizzazione, produttività, efficienza …), se non una prigione di vita per molti. Solo il lavoro liberamente scelto può appagare l’essere umano e renderlo utile alla società. A che punto siamo?

Ma la robotica e il lavoro telematico contengono le stesse insidie del trappolone esistenziale. Intanto la robotica fornisce enormemente più lavoro, efficacia, e prodotti in minor tempo e 24/24 ore al giorno. Il tempo viene divorato dai robot e dalle nano tecnologie. Bene, se fosse utile all’umanità intera e a togliere almeno un po’ la maledizione biblica “del sudore della tua fronte”.

Albert Einstein: “Temo il giorno in cui la tecnologia andrà oltre la nostra umanità: il mondo sarà popolato allora da una generazione di idioti”.

Mentre il lavoro telematico, avendo abolito lo spazio, si è riversato tutto sul tempo, dichiarando e imponendo il lavoro sempre e dovunque, ai suoi ritmi. Con i tablet, oltre ad essere controllati, si lavora sempre, a tavola, in bagno e a letto. Per quante ore nella giornata? Cos’è diventato il lavoro?

L’uso sempre più diffuso delle tecnologie digitali come smartphone, tablet, computer portatili e desktop per il lavoro per la casa e altrove sta rapidamente trasformando il modello tradizionale di lavoro. Si può migliorare l’equilibrio tra vita e lavoro, ridurre i tempi di pendolarismo, e incrementare la produttività, ma può anche potenzialmente causare l’orario di lavoro più lungo, l’intensità del lavoro più alto e le interferenze lavoro-casa.(nuovo rapporto congiunto ILO-Eurofound 2017).

Molti studiosi sono sempre più concentrati sui vantaggi e gli svantaggi delle nuove telecomunicazioni in questioni come orario di lavoro, individuale e organizzativo, prestazioni, equilibrio vita-lavoro, sicurezza sul lavoro e la salute. Ma l’atomizzazione dei problemi in luogo e tempo, sicuramente anche strettamente individuali e individualistici, difficilmente possono essere inseriti in un Contratto Collettivo Nazionale di Lavoro. Non esiste, se non qualche approccio tra bancari e assicurativi, in nessun paese a economia e lavoro avanzati. Ognuno fa da sé, il più possibile.

Anche la scuola ha seguito un concetto di sottomissione al lavoro coatto, cercando di recuperare i 14enni fuggiti (e 16enni) dall’obbligo scolastico, obbligandoli ad addestrarsi subito al lavoro per “capire meglio come funziona”. Sembra che non abbia funzionato, vedi gli ultimi dati Istat, anche regione per regione, evitando la solita colpevolizzazione del Mezzogiorno. Altra cosa era ed è l’apprendistato e la sua formazione. Qualcuno ritiene, a sinistra, che l’obbligo all’alternanza scuola lavoro appare sempre più una delle poche scelte di politica scolastica orientate al futuro, anzi, e che nella quarta rivoluzione industriale farà la differenza tra un lavoratore e un robot, visto che la scuola non è autosufficiente nell’educare i giovani a “diventare lavoratori” o cittadini competenti e liberi. Si capisce solo se il lavoro comporta obblighi e diritti. Non mi sembra di essere in questa direzione, né oggi possiamo presumere sulla bontà storica dei padroni nel futuro, visto che questo sembra già essere gestito, ristrutturato e programmato solo da loro. Difficile rincorrerli sul loro 4.0. con le truppe sfiancate (rimaste a 2.0) puntando solo sul “lavoro” e non la ridistribuzione delle ricchezze, orario di vita migliore compreso. Sapendo tra l’altro la grande velocità di arrivare a 5.0 cioè quando gran parte del lavoro industriale sarà fatto solo dai robot, capaci anche di riparare sé stessi. Il futuro è solo quello di rimodellare questo tipo di società, magari umanizzandolo.

Nell’Europa dei 28 l’Italia ha il primato dei giovani (tra 15 e 24 anni) che non lavorano e non sono nel sistema scolastico. Vengono chiamati NEET (Not in Education, Employment or Training). In questa situazione troviamo il 20% dei giovani, cioè uno su cinque. Non sono nemmeno disoccupati o non occupati, semplice giro di parole. Il doppio della media europea (“Occupazione e sviluppi sociali in Europa – ESDE-2017). Cosa pensano del lavoro che non c’è oppure se c’è (tra 300 e 600 €/mese spesso per più di 48 ore, se non quasi consumati per arrivare sul luogo di lavoro) vale proprio la pena? E’ un dato in crescendo. Non saranno delusi della bontà deontologica del “lavoro” come sviluppo umano individuale e responsabilità sociale o cittadinanza attiva? Sono rifiutati e vittime della società o rifiutano questa società? Non possono fare altro che sopravvivere in famiglia e “consumare” assolutamente quasi nulla della “produzione” eccezionale o “competitiva” che hanno sotto gli occhi, dovuta anche all’aumento dei carichi e dei ritmi di lavoro di quelli “occupati” e fortunati a 1.000/1200€ mensili.

Ministro belga delle Pensioni, Braquelaine: “bisogna obbligare le persone a lavorare di più e per molti più anni” (Le soir, 24/7/2017). E’ il ritornello Fornero. E’ un grande coro dell’Europa che “lo vuole”.

Il lavoro senza diritti di vita non può essere considerato “lavoro” ma solo una delle fasi dolci di schiavitù del genere umano. C’è chi accetta e chi non accetta. Indubbiamente la confusione è grande, ma indica un cambiamento profondo della società. Molti sociologi embed (incorporati, prezzolati?) non riescono a ricondurli alla ragione, cioè all’obbligo di lavorare quasi per niente o di sottomettersi alla “dura realtà”, avendo davanti la bella vita di quelli che non lavorano ma “hanno i soldi”, non importa come guadagnati.

 

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