La fine dei supermercati.

La fine dei supermercati

Tonino D’Orazio  19 febbraio 2017.

Oppure il suo ridimensionamento in tempi brevi. Gli Iper, i Super mercati costano troppo in gestione. Intanto hanno divorato migliaia di piccoli negozi e messo sul lastrico milioni di persone, pur assumendone  altre a basso costo, e in confronto, qualche migliaio di lavoratori precari, sempre più pagati con le noccioline (voucher), e con orari disarticolanti per le loro condizioni fisiche e psichiche.

I costi delle aree affittate dai commercianti in queste strutture sono esosi e in tempi di crisi diventano improponibili. Si può facilmente notare quanti negozi chiudono, a che velocità, e quanto tempo ci mettono a riaprire. I dati generali indicano un “non utilizzo” degli spazi pari al 15/20 %, secondo le aree geografiche.

Nella valle del Pescara, tra Chieti e Pescara, su una distanza di 10 km servito da un Asse Attrezzato (scorrimento veloce) vi è l’area a più alta densità di Iper e Super mercati d’Europa. Senza citare le sigle vi sono alla loro gestione francesi, svedesi, tedeschi, spagnoli, cinesi, bolognesi, veronesi, pugliesi e altri. Ve ne sono di ultra specializzati in elettronica, in alimentazione, in scarpe, in attrezzature per il “fai da te”, mobili, in articoli sportivi, in arredamenti edili, ecc …

Io loro tallone d’Achille, a medio termine, è dettato dagli acquisti cosiddetti on-line, telematici da casa, con prezzi vantaggiosi, il cui volume è in crescita di almeno il 100% all’anno. Alcune ditte, super tecnologiche, ma che sfruttano ancora in modo vergognoso i lavoratori, stanno già monopolizzando il “mercato”. Tipo Amazon e Google, assistiti da metodi e modi di pagamento da un altro big, Paypal. Le strutture di distribuzione dei prodotti sono veloci, altamente e tecnologicamente avanzate. Te li portano in casa e una gran parte dei “consumatori” ne è soddisfatta. Non ci siamo ancora con i prodotti freschi (es. verdura e frutta), ma vini, formaggi, insaccati, scatolami, medicinali, pillole “energetiche” e “integratori” o surrogati  alimentari, attrezzi vari, prodotti elettronici, sono in aumento esponenziale. Su cento reti televisive più di cinquanta canali servono solo a questo. Tralascio l’aspetto sociologico di sempre maggiore frammentazione della vita sociale, in cui tra personal computer e acquisti on-line anche l’isolamento individuale aumenta in modo esponenziale, se non surrogato dalle “amicizie” tipo Facebook.

Vi è già una distinzione scientifica per evidenziare diverse tipologie di piattaforma. C’è l’advertising platform (vendita di spazi pubblicitari: qui i padroni sono Google e Facebook), la cloud platform, cioè i proprietari di hardware e software usati da altre imprese, l’industrial platforms (che fornisce la tecnologia e il software affinché altre aziende possano ottimizzare i propri processi organizzativi e produttivi), le product platforms (i loro profitti derivano dall’uso di altre piattaforme, che trasformano i loro prodotti in servizi usati da imprese, compresa la sorveglianza), le lean platforms (quei servizi come Airb&b e Uber).

Chi può preparare e organizzare il nostro paese, la nostra economia, la nostra società di fronte all’avanzare veloce dell’automazione e “dell’intelligenza artificiale” quando non abbiamo nemmeno un piano industriale e produttivo post fordista? Pur avendo analisi e riferimenti su come sia cambiato il lavoro e il suo futuro, c’è un’assenza di programmazione spaventosa, una coscienza imprenditoriale stracciona e un ceto dirigenziale politico mediocre e subalterno.

Se ormai è assodato che la trasformazione produttiva aumenterà sempre di più la disoccupazione, oppure la “mancanza di lavoro” vero, (per essere precisi), l’emarginazione e la povertà, strada sulla quale siamo realisticamente e indubbiamente avviati, potrebbe essere interessante iniziare una vera discussione sulla riduzione dell’orario di lavoro (sempre osteggiato anche da molte organizzazioni sindacali) e sul reddito di cittadinanza. Quest’ultimo, come ridistribuzione della ricchezza prodotta, dovrà essere solidale e consistente, altrimenti diventerà la goccia quotidiano per far sopravvivere, striminzita, la pianta e il mercato del basso consumo. Bisogna forse aspettare che il capitalismo decida quando e dove, dopo aver spremuto a fondo il limone? Perché tanto, prima o poi, lo sanno, diventerà socialmente insostenibile il continuo aumento della povertà. E’ proprio questo il timore espresso dal presidente della setta Nuovo Ordine Mondiale (NOM), Brzezinski (già presidente per decenni della Commissione Sicurezza degli Stati Uniti, cuore del neocapitalismo), quando avverte i colleghi elitisti del Bildeberg che un movimento mondiale di “resistenza” al “controllo esterno” e globale, guidata da “attivismo populista”, sta minacciando di far deragliare la transizione programmata verso un nuovo ordine mondiale guidato e gestito da poche persone, da loro.

Cosa pensare allora del documento dell’Onu (Agenda 2030) sullo Sviluppo Sostenibile quando dichiara che “nessuno sarà escluso”, e ripercorrendo il motto dell’OIL, “lavoro decente per tutti”? Per tutti? Difficile anche osannare il lavoro quando questo tende a diminuire fortemente e il non lavoro diventa predominante e pieno comunque di nuovi e incontrollabili sviluppi.

Tutti insistono sul fatto che il capitalismo delle piattaforme prevede una crescita senza lavoro, o per pochi. Forse è bene ricordare le svariate discussioni degli anni ’90 sulla “società duale”, dove stiamo approdando oggi; in sintesi: pochi lavoreranno e gli altri, niente, ma da controllare. Da una parte ogni impresa importante, attualmente, dà forma a veri e propri bacini di forza lavoro che contemplano diverse forme contrattuali, specializzazioni, appartenenza etnica e di genere e dove le imprese attingono ogni volta che ne hanno bisogno. Ma questo è già un dato di fatto da anni, basta pensare ai vari sistemi post-fordisti tipo just in time, toyotismo, telelavoro, insomma il contenuto vero della “flessibilità” e della precarietà già nel lavoro. Gli altri aspettano fuori. Da questo punto di vista sarebbe corretto dire che il lavoro vivo viene gestito tutto come un esercito industriale di riserva, eccetto per alcune mansioni ritenute strategiche, determinando la convergenza di interessi tra il core labour  (lavoro di base) e le imprese. Da questo punto di vista Silicon Valley è il paradigma della difficoltà, a meno di pensare i knowledge worker (lavoratori della conoscenza. Laureati vari) come soggetti centrali di un unico, rinnovato e futuro conflitto di classe, uno step storico in su. E’ significativo per esempio il Mechanical Turk di Amazon nell’uso del lavoro umano indispensabile all’automazione, eppure qualificato, intermittente e con salari spesso al di sotto della soglia di povertà.

Lo stesso capitalismo ha difficoltà a chiudere la vecchia fase che ha preso l’avvio negli anni, ormai lontani, Settanta del Novecento. Prevede senza contrasto il suo sviluppo nel ruolo del capitalismo mondiale con imprese come Google, Amazon, General Electric, Siemens, Ibm, Apple, Roll Royce, Uber, integrando produzione e distribuzione, indicando la globalizzazione non come una parentesi, bensì come un elemento irreversibile e cercando strategie tese a prevenire il conflitto sociale, e di classe. Facendo finta di creare lavoro ingoiandone altro ben più numeroso. Sarà così anche per i supermercati. Ma probabilmente anche per tutto il “mercato”, in un futuro relativamente corto, se non già presente.

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Un commento su “La fine dei supermercati.

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