Democrazia e informazione.

Tonino D’Orazio. 30 aprile 2018.

Siamo in democrazia? Siamo in regime? Siamo in un nuovo tipo di dittatura formale? No, possiamo parlare.

Il problema nasce se siamo in molti, troppi, a parlare o sparlare. Così pensano gran parte dei giornalisti occidentali. Sono preoccupati dalle cosiddette fake news, false notizie, eccetto se partono da loro, in coro, a sostegno del blocco sociale dominante e la voce e gli interessi del padrone. Perché tutti i giornali sono padronali. Anzi in questo caso le reti televisive proprietarie, sia private sia pubbliche-politicizzate, sono da esempio.

L’articolo è un po’ lungo ma le operazioni di regime europeo verso il Web per una sopraffazione culturale e indottrinamento ulteriore richiedono alcune delucidazioni precise. (Cfr mio precedente articolo del 10 aprile su “toninodorazio.altervista.org”: L’Unione e le fake news)

Giusto l’adagio per cui, chi ha più informazioni e conoscenza ha più potere. Però i giornali e la stampa che prima ne avevano tanto sono in grande difficoltà; non vendono più. In fondo danno tutti le stesse notizie, come fossero etero diretti, con alcune sfumature che rappresenterebbero forse visioni diverse dei problemi esposti. Anche le reti televisive. Ormai molti individui non hanno bisogno di essere “orientati”, (più di cinquant’anni della scuola dell’obbligo saranno pur serviti a qualcosa), e si informano direttamente su internet, dove, chi conosce l’inglese e qualche altra lingua, può reperire informazioni, da quasi tutti i paesi del mondo, così spesso contrastanti e alternativi da rimanere perplessi. Quindi l’informazione è anche ricerca plausibile della verità di determinati fatti o immagini raccontati. Per i giovani è pane quotidiano, e sul web c’è tutto. Altrimenti, se non si ha tempo, bisogna accontentarsi di quel che passa il convento.

Di fronte alle nuove tecnologie ci si rende conto che qualcuno non ha più il potere univoco di orientare. Parto dal concetto espresso da Ruben Razzante dell’Università Cattolica di Milano.: “La Rete mette a rischio la libertà di informazione e può rubarci le vite”. Intanto sono due concetti abbastanza indipendenti e volutamente confusi se messi insieme. In un suo libro lo scrittore e docente universitario, vede molti pericoli nel Web e “la necessità di un umanesimo digitale”, cioè deontologico e sulla falsa riga della morale cattolica. Dichiara che servono maggiori controlli e maggiore consapevolezza dei rischi per i nostri diritti e quindi l’esigenza d’intervento del legislatore e degli addetti ai lavori, cioè i giornalisti. Come se fino ad oggi fossimo stati tutelati proprio in questi diritti.

Le nuove tecnologie aprono scenari nuovi e consentono ambiti di libertà impensabili, è altrettanto vero che, dietro l’angolo, vi sono manipolazioni, distorsioni e prevaricazioni. Ma queste sono all’ordine del giorno anche con tutti i mass media “ufficiali” odierni. Secondo Razzante le istituzioni, i politici e gli addetti ai lavori devono intervenire per “disinnescare le insidie del Web e assicurare a tutti un’efficace tutela dei diritti con soluzioni in testi di legge e codici di autoregolamentazione”. Come?

I processi di innovazione tecnologica stanno impattando in modo molto profondo sui meccanismi di rappresentanza della libertà di informazione e la stessa democrazia non può che trarne beneficio. Ormai è molto difficile nascondere magagne, menzogne politiche e di governo ovunque nel mondo.

Dice Razzante che i social non potranno esprimere ciò che vogliono, ma dovranno convertirsi a criteri di valutazione e monitoraggio della qualità dell’informazione. Non potranno più essere luoghi di anarchia, dove tutto è consentito (anche la stupida e democratica libertà di parola?), e mancano filtri di verificabilità delle notizie. Il problema è proprio la veridicità delle informazioni, la riproposta asettica e analitica di quest’ultima è il concetto latente di censura. Altrimenti si rischia una Commissione sulla Purezza della Linea, cioè del Pensiero Unico, con l’idea che comunque servirà sempre la figura di chi filtra, verifica e legittima il contenuto che passa per la Rete. Cioè chi “orienta” democraticamente, riconoscibile e tale da consentire alle persone di formarsi una opinione consapevole e digerita della realtà. Come oggi?

Che fiducia dare a Facebook che ha attrezzato una task force di giornalisti (sic!), per individuare le fake news, oppure a Google che ha concluso accordi addirittura con la Fieg (Federazione Italiana Editori Giornali) per un giornalismo di qualità? Se quest’ultimi cominciassero dai loro giornali a cercare un po’ di verità invece di affidarsi semplicemente alle agenzie stampa e ai loro padroni, già ci sentiremmo più sicuri.

La nuova legge tedesca, che ha introdotto la censura di stato sulle piattaforme dei social media, è entrata in vigore il 1° ottobre 2017. Ma fu dato tempo alle piattaforme dei social media di prepararsi al loro nuovo ruolo di polizia privata del pensiero dello Stato tedesco fino al 1° gennaio 2018. Questa nuova norma impone ai social network come Facebook, Twitter e YouTube di censurare i loro utenti per conto dello Stato tedesco. I social media sono obbligati a rimuovere o a bloccare qualsiasi contenuto “illecito”, come i commenti offensivi e diffamanti o i contenuti che incitano all’odio, entro 24 ore dalla ricezione di un reclamo da parte di “un” utente, a prescindere dal fatto che il contenuto sia appropriato o meno o lo concerni personalmente. Il termine concesso ai social media per la rimozione è esteso fino a 7 giorni per i casi più complicati. Se non provvederanno a farlo, il governo tedesco può elevare multe fino a 50 milioni di euro, per mancata osservanza della norma.

Facile denunciare un esponente politico, anche di spicco dell’opposizione al governo, per zittirlo. Questo è ciò che fanno le autorità negli stati di polizia: attraverso la censura e i procedimenti penali mettono a tacere gli oppositori delle politiche di governo. Meglio se fregarli con il fango quasi indelebile del gossip.

La giurisprudenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU), all’art. 10 sancisce che:

  1. Ogni persona ha diritto alla libertà d’espressione. Tale diritto include la libertà d’opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche e senza limiti di frontiera…
  2. L’esercizio di queste libertà (…) può essere sottoposto alle (…) restrizioni o sanzioni che sono previste dalla legge e che costituiscono misure necessarie, in una società democratica, alla sicurezza nazionale, all’integrità territoriale o alla pubblica sicurezza, alla difesa dell’ordine e alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della morale, alla protezione della reputazione o dei diritti altrui, per impedire la divulgazione di informazioni riservate o per garantire l’autorità e l’imparzialità del potere giudiziario.

In pratica si può “restringere” tutto. In base alla legge sulla censura, chiunque può chiedere a un operatore di un social network di cancellare un post, anche se quel messaggio testuale non lo tocca personalmente in alcun modo. Se il provider del social network non risponde entro 24 ore, la persona che ha chiesto la cancellazione del post può rivolgersi all’Ufficio Federale per la Giustizia, e compilare un modulo disponibile sulla homepage del suo sito web. Questo Ufficio è responsabile del perseguimento delle violazioni e la corte distrettuale di Bonn è l’unica autorità autorizzata a esaminare le controversie in merito alla responsabilità penale dei commenti espressi sui social media e a infliggere ammende ai social media per non aver cancellato tali commenti entro le 24 ore previste dalla legge. Il Dipartimento federale di Giustizia ha affittato nuovi uffici a Bonn per ospitare una cinquantina di nuovi avvocati e funzionari per attuare la nuova normativa e garantire che i provider dei social media cancellino “i post offensivi” entro 24 ore. In gennaio hanno sospeso su Facebook la rivista satirica Titanic. Non avevano capito che scherzava. Sai le risate?

La Germania non fa mistero del desiderio di vedere emulata la sua nuova legge dal resto dell’Unione Europea; vedremo presto i primi della classe, cioè quelli che più hanno paura del web.

Fa anche paura l’ignoranza e la stupidità di Tajani, presidente del Parlamento Europeo, su cos’è il web: “Le piattaforme che di fatto si comportano come editori, devono anch’esse essere responsabili dei contenuti. Non possono permettere impunemente la diffusione di pedo-pornografia, vendita illegale di armi, messaggi di radicalizzazione e di propaganda terroristica, odio razziale, contraffazione o notizie palesemente false”. Non sa nemmeno che per queste cose esiste il Dark Net dove passano nell’anonimato più totale l’80% di queste “transazioni” e nessuno può metterci sopra le mani.

In verità il Web è diventato populista anche verso i giornalisti padronali, nulla a che vedere con la libertà di stampa. E’ il loro turno e ricorrono ancora a chiedere soldi, all’Unione, che li ha già concessi, ( e tanti), perché ritiene che “La manipolazione della pubblica opinione attraverso le fake news è una minaccia reale alla stabilità e alla coesione delle nostre società europee”, cioè al loro sistema deleterio di demolizione del welfare. E’ il loro turno anche in Italia, non solo per gli aiuti di stato a gestioni che dovrebbero stare alle regole del libero mercato, come hanno tuonato per anni per gli altri, (soprattutto per i lavoratori), ma anche perché la linea rossa passa proprio da questo ipocrita elemento, e il loro “rilanciare l’informazione di qualità” significa che i giornali li pagheremo lo stesso, anche se non li compriamo perché li riteniamo proprio non di qualità.

 

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